Tracce

Roberto Beccantini4 giugno 2022

Tracce. Dieci cambi rispetto a Wembley e la bellezza di sei deb. Uno su tutti: Wilfried Gnonto, classe 2003, scuola Inter e poi Zurigo. Non lo conosceva nessuno: tranne, forse, Adani. Suo il cross, bello, per il gol di Pellegrini. La Germania non è l’Argentina, ma è sempre la Germania. Ha pareggiato subito, con Kimmich, ha pagato la notte disastrosa di Sané e la modestia dei terzini (Henrichs, Kehrer) e, anche quando sembrava padrona, ci lasciava briciole, spiccioli.

Venivamo dal deserto di uno 0-3 mortificante, gli assenti erano un sacco, il loggione friggeva. Si è colta, qua e là, la volontà di aprire le finestre per far entrare un po’ d’aria fresca. Le geometrie dinamiche di Tonali, i corpo a corpo di Scamacca (un palo), i tiri di Frattesi in versione Barella. Era un’Italia più fisica (nei muscoli di Cristante e di Scamacca), legata alle catene del travaglio macedone per una ventina di muniti e poi, via via, più sciolta, più coraggiosa.

Di genitori ivoriani, Gnonto era un giro di roulette. Il piatto piange, un ciclo è finito e un altro va aperto. Piace, al Mancio, l’idea spiazzante. Convocò Zaniolo prima che Di Francesco lo facesse debuttare nella Roma. Siamo un Paese pigro, vedremo che ne sarà di Gnonto, dei Cancellieri e dei Pobega – dipende da loro, soprattutto – ma intanto il messaggio è passato. Almeno in Nazionale: nella nazione, ho dei dubbi.

La Nations League non sarà mai un’ossessione. Bologna ha partecipato e trascinato. I problemi di base restano e non è il caso di trasformare un fiammifero nel falò di una favola. Si continua a segnare poco. I tedeschi di Flick sommano più qualità, ma in attacco non è che Muller, Werner, Goretzka e Gnabry abbiano combinato molto più dei nostri. Si aspettava una reazione: di garra, di gioco. C’è stata. L’importante, adesso, è governare gli eccessi. La buccia sulla quale, storicamente, scivoliamo.

Una lezione di talento

Roberto Beccantini1 giugno 2022

Riferire, non infierire. Ci mancherebbe. Wembley, che è sempre testimone attento, l’Argentina, l’Italia, il ricordo di Diego, i 40 anni (fra poco) del Mundial spagnolo. E la coppa Europa-Sud America. E lui, cioè Leo, cioè Messi. Morale: Argentina tre Italia zero. Non solo lui: che, reduce dagli ozi parigini, aveva un gran voglia. Anche Lau-Toro (il primo gol, su assist muscolare e irridente della Pulce). Anche Di Maria (il secondo gol, su tocco del Lau-Toro di cui sopra). E, agli sgoccioli, persino Dybala, con quel sinistro un po’ così che hanno loro che hanno visto Omar.

C’è stata partita per una ventina di minuti. Dopodiché, tango y nada màs. Era un’Italia incerottata, era l’ultima di Chiellini, con un Mancini prigioniero di troppe ombre, da Jorginho a Bonucci, che fra gomiti e piedi non si reggeva e non reggeva. Una Nazionale fragile in mezzo e gracile in attacco, proprio là dove, l’11 luglio del 2021, si era laureata regina. Vicina alla parodia di squadra toreata ed eliminata dai macedoni nello spareggio mondiale di marzo.

Scaloni non è un genio: ha però la fortuna di averne uno. Di 35 anni (a giugno), un pittore al quale basta la leggerezza del pennello. C’è stato un momento in cui gli olè e il torello erano diventati ospiti irriverenti e addirittura sgraditi. Parcere subiectis et debellare superbos: mai dimenticarlo. La ripresa, in compenso, si trasformava in una sparatoria tra Donnarumma e Messi.

Per l’Argentina, imbattuta da 32 gare, era una tappa. Per noi, la fine di un ciclo. Da sabato, con la Germania a Bologna, comincia l’ennesimo futuro. Non sarà facile, se esploriamo i nostri vivai. Intanto, però, evviva Spinazzola. E forza Tonali. Resta, della notte inglese, il piacere del talento. Scortato dai Romero e dagli Otamendi, le guardie del corpo che dai tempi di Rocco ogni regista recluta con sadica cura. E ogni capo, pensando alla caviglie, ignora in pubblico e coccola in privato.

Portiere, champagne

Roberto Beccantini29 maggio 2022

Nel 2018, a Kiev, erano state le papere di Karius a spingere la Coppa verso il Real di Zizou. Questa volta, a Parigi, sono state le prodezze di Courtois. Portiere, champagne. E’ il destino, è la storia, è tutto quello che volete: Liverpool zero Real uno. E così Carlo «culatello» Ancelotti alza la quarta Champions, record assoluto. Klopp, in compenso, cade sul traguardo dopo una stagione se non proprio strepitosa, quasi: secondo in Premier (con 92 punti, uno in meno del City), Coppa di Lega e Coppa d’Inghilterra (anche se entrambe ai rigori), secondo in Europa.

Per i Reds restano, così, sei. Quelle dei Blancos, in compenso, balzano a 14. La banalità del Real, potremmo scrivere, se non ci fosse di mezzo un allenatore che, «nato» a pressing e sacchismo, si è poi laureato con una tesi sul calcio all’italiana. Da non sbandierare sempre, per carità: ma da applicare, se serve, persino nei salotti più esclusivi e raffinati, senza falsi pudori o lessico ambiguo. Pane al pane: lucchetti alla porta, finestre sprangate, valichi bloccati.

Al netto delle proporzioni e delle differenze di avversari, di gioco, di tempo, la crescita del Real mi ha ricordato la cavalcata dell’Italia bearzottiana dell’82. Fuori il Paris Saint-Qatar/Argentina, fuori il Chelsea-Brasile, fuori la Polonia-Manchester City e, in finale, fuori la Germania-Liverpool.
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